«A proposito,» riprese il signor Deasy. «Lei può farmi un favore, signor Dedalus, con alcuni dei suoi amici letterati. Ho qui una lettera per la stampa. Si sieda un attimo. Devo soltanto copiarne il finale.»
Si portò alla scrivania vicina alla finestra, accostò in due tempi la sedia e lesse alcune parole dal foglio nel rullo della sua macchina per scrivere.
«Si sieda. Mi scusi,» disse senza voltarsi, «i dettami del senso comune. Soltanto un attimo.»
Prese a scrutare da sotto gli ispidi sopraccigli il manoscritto accanto al suo gomito e, borbottando, si mise a pungolare i rigidi pulsanti della tastiera, lentamente, sbuffando di quando in quando mentre girava in su il rullo per cancellare un errore.
Stephen si sedette senza fare rumore al cospetto della principesca presenza. Incorniciate sulle pareti immagini di cavalli scomparsi in postura di omaggio, le docili teste in posa nell’aria: Repulse di Lord Hasting, Shotover del duca di Westminster, Ceylon del duca di Beaufort, prix de Paris 1866. In sella elfici fantini, in vigile attesa del segnale. Ne vide le velocità, portatori di colori regali, e urlò con le urla di folle scomparse.
«Punto,» ingiunse il signor Deasy ai suoi tasti. «Ma immediato esame di questa questione cruciale...»
Dove mi aveva portato Cranly per diventare ricchi in fretta, a caccia dei suoi vincenti tra i carrozzoni infangati, tra berci di allibratori sui loro panchetti e il tanfo della bettola, sulla variegata fanghiglia. Fair Rebel alla pari, dieci a uno tutti gli altri. Giocatori di dadi e delle tre carte tra cui ci precipitammo all’inseguimento di zoccoli, berretti e casacche in gara, e oltre la faccia a bistecca, moglie di un macellaio, che dava di grugno sitibonda al suo spicchio d’arancio.
Grida acute risuonarono dal campo di gioco dei ragazzi e il ronzio di un fischio.
Di nuovo: una meta. Io sono tra loro, tra i loro corpi che battagliano in un torneo, la giostra della vita. Intendi quel gambastorta cocco di mamma con l’aria di aver bisogno di vomitare? Giostre. Il tempo colpito ribatte, colpo su colpo. Giostre, fanghiglia e clangore di battaglie, il ghiacciato rigurgito di morte degli sbudellati, un urlo di lance adescate con sanguinolenti visceri umani.
«Ecco qui,» disse il signor Deasy, alzandosi.
Venne al tavolo, spillando insieme i suoi fogli. Stephen si alzò.
«Ho riassunto la cosa in nuce,» disse il signor Deasy. «Riguarda l’afta epizootica. Gli dia un’occhiata. In materia non si può avere un’idea diversa.»
Mi sia lecito invadere il vostro prezioso spazio. Quella dottrina di laissez faire che tanto spesso nella nostra storia. Il nostro commercio di bestiame. Il modo di tutte le nostre vecchie industrie. La cricca di Liverpool che ha tarpato il progetto del porto di Galway. Conflagrazione europea. Forniture di grano attraverso le strette acque del canale. La piuccheperfetta imperturbabilità del ministero dell’agricoltura. Sia concessa un’allusione classica. Cassandra. Da parte di una donna non proprio inappuntabile. Per venire al dunque.
«Non gliele mando a dire, eh?» disse il signor Deasy mentre Stephen continuava a leggere.
Afta epizootica. Nota come preparazione di Koch. Siero e virus. Percentuale di cavalli trattati con soluzione salina. Peste bovina. Cavalli dell’imperatore a Mürzsteg, bassa Austria. Medici veterinari. Signor Henry Blackwood Price. Cortese offerta di sperimentazione. Dettami del senso comune. Questione cruciale. In ogni senso dell’espressione prendere il toro per le corna. Ringraziandovi per l’ospitalità sulle vostre colonne.
«Voglio che sia stampato e letto,» disse il signor Deasy. «Vedrà che alla prossima epidemia metteranno un embargo sul bestiame irlandese. Mentre può essere guarita. La si cura. Mio cugino, Blackwood Price, mi scrive che viene regolarmente curata e guarita in Austria da veterinari locali. Si offrono di venire qui. Sto cercando di trovare appoggi presso il ministero. Adesso intendo provare con i media. Sono circondato da difficoltà, da... intrighi da... trame da...»