venerdì 19 febbraio 2021

#29 Sargent


Averroè - Cappellone degli Spagnoli
S. Maria Novella - Firenze

Fra simboli algebrici, filosofi medievali, danze moresche, vediamo emergere in Dedalus anche un moto compassionevole che non gli avevamo ancora riconosciuto. Il bizzarro e distratto maestro cerca di aiutare Sargent, l'ultimo della classe, anche lui in fondo vittima di un sistema di istruzione e un modello di cultura in decadenza.

Per guardare questo e gli altri video su Youtube, clicca qui sotto:
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La versione in podcast è disponibile su Spotify qui:
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Ecco il testo in lingua originale del brano citato dall'Ulysses in questo video:
Sargent who alone had lingered came forward slowly, showing an open copybook. His tangled hair and scraggy neck gave witness of unreadiness and through his misty glasses weak eyes looked up pleading. On his cheek, dull and bloodless, a soft stain of ink lay, dateshaped, recent and damp as a snail's bed.
He held out his copybook. The word Sums was written on the headline. Beneath were sloping figures and at the foot a crooked signature with blind loops and a blot. Cyril Sargent: his name and seal.
— Mr Deasy told me to write them out all again, he said, and show them to you, sir.
Stephen touched the edges of the book. Futility.
— Do you understand how to do them now? he asked.
— Numbers eleven to fifteen, Sargent answered. Mr Deasy said I was to copy them off the board, sir.
— Can you do them yourself? Stephen asked.
— No, sir.
Ugly and futile: lean neck and tangled hair and a stain of ink, a snail's bed. Yet someone had loved him, borne him in her arms and in her heart. But for her the race of the world would have trampled him underfoot, a squashed boneless snail. She had loved his weak watery blood drained from her own. Was that then real? The only true thing in life? His mother's prostrate body the fiery Columbanus in holy zeal bestrode. She was no more: the trembling skeleton of a twig burnt in the fire, an odour of rosewood and wetted ashes. She had saved him from being trampled underfoot and had gone, scarcely having been. A poor soul gone to heaven: and on a heath beneath winking stars a fox, red reek of rapine in his fur, with merciless bright eyes scraped in the earth, listened, scraped up the earth, listened, scraped and scraped.
Sitting at his side Stephen solved out the problem. He proves by algebra that Shakespeare's ghost is Hamlet's grandfather. Sargent peered askance through his slanted glasses. Hockeysticks rattled in the lumberroom: the hollow knock of a ball and calls from the field.
Across the page the symbols moved in grave morrice, in the mummery of their letters, wearing quaint caps of squares and cubes. Give hands, traverse, bow to partner: so: imps of fancy of the Moors. Gone too from the world, Averroes and Moses Maimonides, dark men in mien and movement, flashing in their mocking mirrors the obscure soul of the world, a darkness shining in brightness which brightness could not comprehend.
— Do you understand now? Can you work the second for yourself?
— Yes, sir.
In long shaky strokes Sargent copied the data. Waiting always for a word of help his hand moved faithfully the unsteady symbols, a faint hue of shame flickering behind his dull skin. Amor matris: subjective and objective genitive. With her weak blood and wheysour milk she had fed him and hid from sight of others his swaddling bands.
Like him was I, these sloping shoulders, this gracelessness. My childhood bends beside me. Too far for me to lay a hand there once or lightly. Mine is far and his secret as our eyes. Secrets, silent, stony sit in the dark palaces of both our hearts: secrets weary of their tyranny: tyrants, willing to be dethroned.
The sum was done.
— It is very simple, Stephen said as he stood up.
— Yes, sir. Thanks, Sargent answered.
He dried the page with a sheet of thin blottingpaper and carried his copybook back to his desk.
— You had better get your stick and go out to the others, Stephen said as he followed towards the door the boy's graceless form.
— Yes, sir.
(James Joyce 1922)
La lettura del brano originale è tratta da: Ulysses Broadcast - RTE Radio 1982

Ecco i testi delle traduzioni in italiano dall'Ulisse lette e citate in questo video:
Sargent, il solo che avesse indugiato, si fece avanti con lentezza tenendo un quaderno aperto. I capelli folti e il collo scarno davano a divedere un che di tardo e attraverso le lenti appannate deboli occhi si levavano imploranti. Sulla gota, smorta ed esangue, c’era una lieve macchia d’inchiostro, a forma di dattero, recente e umida come una traccia di lumaca.
Porse il quaderno. In cima alla pagina stava scritta la parola Operazioni. Sotto c’erano delle cifre sbilenche, in fondo una firma contorta, con gli occhielli delle lettere ciechi e una macchia. Cyril Sargent: firma e suggello.
– Mr Deasy mi ha detto di riscriverle tutte, disse, e di fargliele vedere, professore.
Stephen toccò gli orli del quaderno. Nullità.
– Ha capito ora come si fanno? domandò.
– Dall’esercizio undici al quindici, rispose Sargent. Mr Deasy ha detto che dovevo copiarle dalla lavagna, signore.
– Le sa fare da sé? domandò Stephen.
– No, professore.
Brutto e nullo: collo magro e capelli folti e una macchia d’inchiostro, una traccia di lumaca. Eppure c’era una che lo aveva amato, portato in braccio e dentro al cuore. Se non fosse stato per lei la maratona del mondo lo avrebbe schiacciato sotto i piedi, spiaccicata lumaca senza vertebre. Lei aveva amato quel debole sangue acquoso trasfuso dal proprio. Era dunque vero? La sola cosa autentica della vita? Sul corpo prostrato della madre cavalcò nel suo santo zelo il focoso Colombano. Essa non era più: lo scheletro tremante di un ramoscello bruciato nel focolare, un sentor di legno di rosa e di cenere umida. Aveva impedito che lo schiacciassero sotto i piedi; e se ne era andata, senza quasi essere esistita. Un’animuccia andata in cielo: e in una landa sotto l’ammiccare delle stelle una volpe, rosso fortore di rapina nel pelo, con occhi lustri spietati grattava nella terra, ascoltava, grattava via la terra, ascoltava, grattava e grattava.
Seduto accanto a lui, Stephen risolveva il problema. Dimostra con l’algebra che lo spettro di Shakespeare è il nonno di Amleto. Sargent guardava in tralice attraverso gli occhiali a sghimbescio, le mazze da hockey sbattevano nel ripostiglio: il colpo sordo d’una palla e richiami dal campo.
Attraverso la pagina i simboli si muovevano in solenne moresca, sotto le maschere delle loro lettere, con bizzarre berrette di quadrati e cubi. Date la mano, traversate, inchinatevi alla dama: così: demonietti usciti dalla fantasia dei Mori. Scomparsi anche loro dal mondo, Averroè e Mosè Maimonide, uomini scuri nel volto e nel gesto, che facevano balenare nei loro specchi beffardi l’anima buia del mondo, un’oscurità splendente nella luce, che la luce non poteva comprendere.
– Capisce ora? Riesce a fare da solo quella dopo?
– Sì, professore.
Con lunghi tratti tremuli Sargent ricopiò i dati. Sempre in attesa di una parola di aiuto, la mano moveva fedelmente i simboli incerti, un debole color di vergogna lippolando sotto la pelle opaca. Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo. Col sangue debole e il latte sieroso l’aveva nutrito e aveva nascosto agli occhi degli altri le sue fasce.
Ero come lui, queste spalle cadenti, questa sgraziataggine. La mia infanzia si china qui accanto a me. Troppo distante perché io possa posarvi la mano anche una sola volta, o lievemente. La mia è distante e la sua segreta come i nostri occhi. Silenziosi, pietrosi, segreti sono insediati nei palazzi bui di entrambi i nostri cuori: segreti stanchi della loro tirannide: tiranni disposti a essere detronizzati.
L’operazione era fatta.
– È semplicissimo, disse Stephen alzandosi.
– Sì, professore. Grazie, rispose Sargent.
Asciugò la pagina con un sottile foglio di carta assorbente e riportò il quaderno al suo banco.
– Meglio che adesso lei vada a prendere la mazza e raggiunga gli altri, disse Stephen, seguendo verso la porta la figura sgraziata del ragazzo.
– Sì, signore.  
(Giulio De Angelis 1960 Mondadori)
Sargent, che solo s’era attardato si fece avanti lentamente, mostrando un quaderno aperto. I capelli arruffati e il collo ossuto testimoniavano di una certa svogliatezza, e attraverso gli occhiali appannati occhi deboli guardavano dal basso supplicanti. Sulla sua guancia, smunta ed esangue, vi era una leggera macchia d’inchiostro, a forma di dattero, recente e umida come la scia di una lumaca.
Porse il suo quaderno. Scritta in alto la parola Calcoli. Sotto c’erano figure incrinate e in basso una firma contorta con occhielli ciechi e una macchia. Cyril Sargent: il suo nome e sigillo.
– Mr Deasy mi ha detto di riscriverle tutte, disse, e di mostrarle a lei, signore.
Stephen sfiorò i lembi del quaderno. Inutilità.
– Ora l’hai capito come devi farli? chiese.
– Numeri da undici a quindici, rispose Sargent. Mr Deasy ha detto che dovevo copiarli dalla lavagna, signore.
– Li sai fare da solo? chiese Stephen.
– No, signore.
Brutto e inutile: collo lungo e capelli arruffati e una macchia d’inchiostro, una scia di lumaca. Eppure qualcuna l’aveva amato, tenuto tra le braccia e nel cuore. Non fosse stato per lei, in quella gara che è il mondo l’avrebbero calpestato, una smidollata lumaca spiaccicata. Ne aveva amato il debole sangue annacquato, succhiato dal suo. Era forse vero? L’unica cosa vera della vita? Il corpo prostrato della madre l’impetuoso Colombano in ardente zelo scavalcò. Lei non era più: lo scheletro tremante d’un ramoscello bruciato nel fuoco, un odore di legno di rosa e ceneri bagnate. Aveva evitato che lo calpestassero e se n’era andata, a malapena avendo vissuto. Una pover’anima andata in paradiso: e sulla brughiera sotto stelle scintillanti una volpe, rosso afrore di rapina nella pelliccia, con occhi lucidi e impietosi raschiava nella terra, ascoltava, raschiava via la terra, ascoltava, raschiava e raschiava.
Seduto al suo fianco Stephen risolveva il problema. Prova con l’algebra che il fantasma di Shakespeare è il nonno di Amleto, lui. Sargent sbirciò di traverso attraverso gli occhiali obliqui. Mazze da hockey tamburellavano nel ripostiglio: il colpo sordo di una palla e grida dal campo.
Sulla pagina i simboli si muovevano in solenne danza moresca, nella ridicola cerimonia delle lettere, indossando curiosi cappelli di quadrati e cubi. Dare la mano, attraversare, inchinarsi al compagno: così: diavoletti di fantasia dei mori. Anche loro scomparsi dal mondo. Averroè e Mosè Maimonide, uomini scuri all’aspetto e nelle movenze, che mettevano in mostra nei loro specchi dileggianti l’oscura anima del mondo, un’oscurità che risplende nella luminosità che la luminosità non riesce a comprendere.
– Ora lo capisci? Lo sai fare da solo il secondo?
– Sì, signore.
In lunghi tremolanti tratti Sargent copiava i dati. Sempre in attesa di una parola d’aiuto la sua mano muoveva fedelmente i simboli incerti, una tinta fievole di vergogna vacillante dietro la pelle opaca. Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo. Col suo sangue debole e il latte acido di siero, lei l’aveva nutrito tenendo nascoste alla vista altrui le sue fasce.
Come lui ero io, stesse spalle cascanti, stessa grazia assente. La mia infanzia si inchina accanto a me. Troppo lontana per posarvi una mano una volta o con leggerezza. La mia è lontana e la sua segreta come i nostri occhi. Segreti, silenziosi, sassosi siedono negli oscuri palazzi d’entrambi i cuori: segreti stanchi della loro tirannia: tiranni desiderosi d’esser detronizzati.
Il calcolo era fatto.
– È molto semplice, disse Stephen alzandosi.
– Sì, signore. Grazie, rispose Sargent.
Asciugò la pagina con un foglio leggero di carta assorbente e riportò il quaderno al suo banco.
– Faresti bene a prendere la tua mazza e a unirti agli altri, disse Stephen, seguendo fino alla porta la sagoma sgraziata del ragazzo.
– Sì, signore.
(Enrico Terrinoni 2012 Newton Compton) 
Sargent, l’unico rimasto, venne avanti a passo lento col quaderno aperto. Dai capelli arruffati e dal collo di gallina si vedeva un che di ritardato, e attraverso le lenti appannate i suoi deboli occhi guardavano imploranti. Sulla guancia terrea, esangue, c’era una tenue macchia d’inchiostro in forma di dattero, recente e ancora umida come la scia d’una lumaca.
Tese il quaderno a Stephen. La parola Aritmetica scritta in capo alla pagina. Sotto c’erano delle cifre sbilenche e in basso una firma contorta, con occhielli delle lettere confusi e una macchia. Cyril Sargent: suo nome e sigillo.
– Mr Deasy mi ha detto di riscrivere tutto, disse, e di mostrarglielo.
Stephen sfiorò i bordi del quaderno. Tutto futile e vacuo.
– Hai capito adesso queste operazioni? domandò.
– Dall’esercizio undici al quindici, rispose Sargent. Mr Deasy ha detto che dovevo copiarle dalla lavagna.
– Le sai fare da solo? domandò Stephen.
– No, professore.
Brutto e insignificante: collo magro, capelli arruffati e una macchia d’inchiostro, scia di lumaca. Eppur qualcuno l’aveva amato, una donna l’aveva tenuto in braccio e stretto al proprio seno. Se non fosse stato per lei, sarebbe rimasto schiacciato nella grande competizione del mondo, flaccida lumaca spiaccicata al suolo. Lei aveva amato quel sangue astenico, acquoso, trasfuso dal suo. Era questa la realtà? L’unica cosa vera della vita? Il corpo esausto della madre, nel suo santo zelo il focoso Colombano ci passò sopra. Lei non era piú: il tremante scheletro d’un ramoscello consumato dal fuoco, odore di legno di rosa e ceneri bagnate. Lei l’aveva salvato dall’esser schiacciato sotto i piedi, poi se n’era andata, esistita appena. Anima senza veli volata nei cieli. E nella landa sotto le stelle scintillanti, una volpe, rosso fortore di rapina nel suo pelo, con occhi lustri e impietosi, grattava la terra, drizzava le orecchie, poi grattava e grattava.
Seduto accanto al ragazzo, Stephen gli risolse il problema. Dimostra con l’algebra che lo spettro di Shakespeare è il nonno di Amleto. Sargent lo sbirciava attraverso le lenti, di sbieco. Mazze da hockey sbatacchiavano nella stanza degli attrezzi: sordo cozzo d’una palla e richiamo dal campo.
Sulla pagina i simboli danzavano la loro moresca, nella mascherata delle lettere curiosamente imberrettate con elevazioni al quadrato e al cubo. Datevi la mano, venite avanti, salutate la vostra dama: ecco, cosí. Spiritelli usciti dalla fantasia dei Mori. Anch’essi passati via dal mondo, Averroè e Maimonide, scuri in volto e nei gesti, fecero balenar nei loro specchi beffardi l’oscura anima del mondo, un buio che riluce in lampi e che la luce non è riuscita a comprendere.
– Hai capito adesso? Riesci a svolgere quell’altro problema da solo?
– Sí, professore.
Con lunghi colpi di penna vacillanti, Sargent ricopiò i numeri. Sempre in attesa d’una parola di soccorso, la sua mano metteva in moto con scrupolo quegli incerti simboli, mentre un vago color di vergogna baluginava sotto la sua terrea epidermide. Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo. Col suo sangue povero e latte sieroso, lei l’aveva nutrito e aveva nascosto agli sguardi altrui le fasce con cui lo fasciava da pargolo.
Io ero come lui, quelle spalle cadenti, quella goffaggine. La mia infanzia è qui a testa bassa accanto a me. Troppo lontana per poter appoggiarvi una mano o anche sfiorarla. La mia è lontana e la sua segreta come i nostri occhi. Silenziosi, pietrosi segreti nei bui palazzi dei cuori di entrambi. Segreti stanchi della propria tirannia, tiranni che vorrebbero esser defenestrati.
L’operazione era conclusa.
– È molto semplice, disse Stephen alzandosi.
– Sí, professore. Grazie, rispose Sargent.
Asciugò la pagina con un foglio di sottile carta assorbente e riportò il quaderno al suo banco.
– Ora è meglio che prendi la tua mazza e corri a raggiungere gli altri, fece Stephen mentre accompagnava la sgraziata figura dello scolaro verso la porta.
– Sí, professore.
(Gianni Celati 2013 Einaudi)
Sargent, il solo che era rimasto lì, si fece avanti lentamente, mostrando un quaderno aperto. I capelli arruffati e il collo scheletrico erano testimoni di ritardo, e attraverso gli occhiali annebbiati due occhi miopi guardavano all’insù imploranti. Sulla guancia, spenta ed esangue, posava una macchiolina d’inchiostro, in forma di dattero, recente e umida come la scia di una lumaca.
Porse il suo quaderno. Nel titolo era scritta la parola Operazioni. Più sotto numeri sbilenchi e in fondo una firma contorta con occhielli ciechi e una macchia. Cyril Sargent: suo nome e sigillo.
«Il signor Deasy mi ha detto di riscriverle tutte,» disse, «e mostrarle a lei, signore.»
Stephen toccò i bordi del quaderno. Senza speranza.
«Hai capito come si fanno, adesso?» chiese.
«Dall’undici al quindici,» rispose Sargent. «Il signor Deasy ha detto che dovevo copiarle dalla lavagna, signore.»
«Le sai fare da solo?» chiese Stephen.
«No, signore.»
Brutto e insignificante: collo scarno, capelli arruffati e una macchia d’inchiostro, una scia di lumaca. Eppure una donna lo aveva amato, portato fra le braccia e nel cuore. Se non fosse stato per lei la calca del mondo lo avrebbe calpestato, spiaccicata lumaca priva di ossa. Lei aveva amato il suo debole sangue acquoso, frutto del proprio. Era dunque reale questo? L’unica cosa vera della vita?12 Il corpo prostrato della madre l’infuocato Colombano aveva scavalcato in preda a sacro zelo. Ella non era più: il tremante scheletro di uno stecco arso nel fuoco, un sentore di palissandro e ceneri umide. Lei lo aveva salvato dall’essere calpestato e se n’era andata, essendo a malapena stata. Una povera anima andata in paradiso; e su una brughiera sotto un ammiccare di stelle un volpacchiotto, rosso fetore di rapina sulla pelliccia, con spietati occhi sfavillanti raspava nella terra, ascoltava, raspava su la terra, ascoltava, raspava e raspava.
Seduto al suo fianco Stephen risolse il problema. Dimostra per mezzo dell’algebra che il fantasma di Shakespeare è il nonno di Amleto. Sargent sbirciava di sguincio attraverso gli occhiali inclinati. Mazze da hockey sbatacchiavano nel ripostiglio: lo schiocco sordo di una palla e grida dal campo.
Sulla pagina i simboli si muovevano in una solenne moresca, nella mascherata dei loro caratteri, con bizzarri copricapi di quadrato e cubo. Dare la mano, incrociarsi, inchinarsi al partner; così; folletti dell’immaginazione dei Mori. Andati via anch’essi dal mondo, Averroè e Mosè Maimonide, uomini scuri di aspetto e movimento, che avevano fatto balenare nei loro irridenti specchi l’anima oscura del mondo, una tenebra splendente nella luce, che la luce non poteva comprendere.
«Capisci, adesso? Riesci a fare la seconda da solo?»
«Sì, signore.»
In lunghi tratti tremolanti Sargent copiò i dati. Sempre in attesa di una parola d’aiuto la sua mano muoveva fedelmente i malfermi simboli, una vaga tonalità di vergogna baluginante sotto la sua pelle spenta. Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo. Con il suo sangue debole e il latte acido di siero lo aveva nutrito e aveva celato alla vista degli altri le sue fasce.
Come lui ero io, queste spalle cadenti, questa sgraziataggine. La mia infanzia è qui ingobbita al mio fianco. Troppo lontana perché io vi posi una mano anche una sola volta o lievemente. La mia è lontana e la sua segreta come i nostri occhi. Segreti, silenziosi, di pietra risiedono nei bui palazzi di entrambi i nostri cuori; segreti stanchi della loro tirannide; tiranni desiderosi di essere detronizzati.
L’operazione era fatta.
«È molto semplice,» disse Stephen alzandosi.
«Sì, signore. Grazie,» rispose Sargent.
Asciugò la pagina con un foglio di sottile carta assorbente e riportò il quaderno al suo banco.
«Adesso è meglio che prendi la tua mazza e vai fuori dagli altri,» disse Stephen mentre seguiva verso la porta la sgraziata figura del ragazzo.
«Sì, signore.»
(Mario Biondi 2020 La Nave di Teseo)

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